lunedì 5 gennaio 2009

Alberto Bonini, casaro


Dieci anni da garzone prima di conquistare il “diploma” da casaro: non un pezzo di carta qualunque ma una vera e propria investitura che il suo predecessore gli ha fatto in una mattina di sedici anni fa, prima di andare in pensione “adesso che hai imparato bene questo lavoro”, gli disse.
Nel 1982 Alberto Bonini, nato in località Stallone di Villanova d’Arda, appena terminati gli studi da meccanico varca la soglia della Latteria Sociale del suo paese e comincia a fare un lavoro che, per un ragazzo di diciassette anni, poteva sembrare un ripiego per guadagnare i primi soldi.
Si alza alle tre ogni mattina e va a fare il garzone del casaro.
Segue ogni passo e ogni ordine del capo della Latteria Sociale e impara tutte le fasi del mestiere. Da lì, da casa sua, non si è più allontanato, continuando a svegliarsi ogni mattina alle tre.
“Ultimamente mi sveglio un’ora dopo. – ci racconta Alberto, mentre si destreggia tra il suo mestiere e quello di “insegnante” in giro per il caseificio, con un gruppo di studenti indiani di un corso di cucina internazionale, arrivati da Torino – La tecnologia e il fatto di non fare più due lavorazioni al giorno mi consente un poco di tempo in più”.
Ma la tecnologia, nel mestiere del casaro, interviene solamente in alcuni casi, quali lo spostamento delle forme sulle scalere del magazzino o il passaggio in salamoia del Grana Padano. Il resto è ancora tutto fatto a mano.
“Non potrebbe essere altrimenti. Ogni tentativo di meccanizzare il procedimento è fallito. Il latte è materia viva che va trattata dalle mani dell’uomo. – continua Alberto – Adesso siamo in otto a fare questo lavoro e produciamo ogni giorno 64 forme di Grana Padano. Il prodotto viene fatto con il latte dei quattordici soci conferenti della cooperativa. Quando ho iniziato io venticinque anni fa i soci erano circa 80 e si produceva meno della metà delle forme”.
Un esempio molto chiaro di come l’agricoltura abbia subito trasformazioni radicali e profonde nel corso di pochi anni.
Alle quattro inizia la fase di lavorazione del latte che porterà, nell’arco di quattro/cinque ore, ad avere le forme pronte per iniziare un ciclo che durerà almeno un anno.E’ in quel momento che il casaro esprime il meglio di sé e tutta la sua competenza. I gesti che sembrano ripetitivi, richiedono invece la massima attenzione per evitare che la forma possa, nel corso della stagionatura, presentare delle imperfezioni.
Oggi con Alberto lavorano altri quattro garzoni ma, a differenza dei decenni scorsi, sono indiani. “Non si trova manodopera italiana, non per un problema di busta paga ma perché questo è un mestiere faticoso che bisogna amare e non considerarlo dequalificante. – prosegue Alberto Bonini – Gli indiani sono molto bravi a fare questo lavoro, con una veloce capacità di apprendimento e una buona dose di contaminazione: quando arrivano gli dobbiamo insegnare la lingua, i metodi, le abitudini e noi impariamo un po’ dei loro usi e costumi”.
Già. Un mestiere dequalificante. Ma come può esserlo, se pensiamo al valore che questi prodotti hanno nella storia e nella cultura del nostro Paese? Come può essere dequalificante quando assistiamo alla battitura di una forma con un martelletto dorato, che fa invidia agli ottoni di una grande orchestra, perché attraverso i suoni che la forma trasmette sappiamo se quel formaggio sarà buono o avrà delle imperfezioni?
“Il lavoro di battitura necessita di un vero e proprio orecchio che solo in pochi esperti hanno. – racconta Alberto mentre fa una dimostrazione davanti agli studenti indiani stupefatti – Io riesco a percepire solo alcuni di questi suoni, ma da noi viene il maestro di battitura”.
La dimostrazione prosegue con il taglio della forma, un lavoro lento che non entra in profondità con la lama ma incide la superficie fino a creare quella fenditura, nei punti giusti, che consente di aprire una forma di trenta chili come se fosse un’albicocca, senza il minimo sforzo.Sono gesti che dovrebbero essere tutelati come beni immateriali del patrimonio dell’umanità, segni di un sapere che si tramanda di mano in mano, dopo dieci anni di pratica da garzone.
“Ma la soddisfazione più grande di questo mestiere è quando entro in magazzino e vedo le forme sulle calere alte venti metri” afferma Alberto. Novecentocinquanta forme per ogni scalera, un capolavoro di architettura che, fino a pochi anni fa, veniva costruito tutto a mano, spostando una ad una le forme per consentire una stagionatura perfetta.Oggi quella è la parte meccanica, ma non per questo priva di fascino.
“E poi la soddisfazione è poter vendere il prodotto anche nello spaccio aziendale, dove arriva il consumatore che il formaggio lo vuole ancora del suo colore paglierino naturale, con la sua giusta punta di pizzicorino, bello stagionato come deve essere il Grana Padano.” interviene Annamaria, la moglie di Alberto che ha scelto di condividere una vita non particolarmente facile, ma felice. Basta guardare gli occhi di Demis e Yuri, i loro due figli di quattordici e undici anni.
“Nomi strani vero? – conclude Alberto – Del resto per fare questo mestiere bisogna un po’ esserlo.”

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